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Lo Spleen di Parigi

Recensione a cura di Luthien Elendil

Baudelaire: il mio scrittore preferito… poeta e narratore della notte parigina e dell’oscurità delle sensazioni umane. Era una persona che si “annoiava” facilmente secondo me: parla della noia come torpore dell’uomo non tanto di noia in quanto tale. Il libro che qui cerco di “pubblicizzare” è “Lo Spleen di Parigi”: definito come raccolta di piccoli poemetti in prosa è a mio parere una manifesta lotta contro tutto ciò che riguarda la semplice attualità del suo tempo. Porta bandiera effettivo del Decadentismo francese, Baudelaire espone, con parole semplici ma musicali, la rovina di Parigi, descritta tramite immagini che amo vedere sotto forma di dagherrotipi: vecchie stampe di mura, persone e intrecciarsi di vite ed esperienze rese ingiallite e sfuocate dal senso di ebbrezza perenne usato come tramite affinché la rovina, la quotidianità, la noia stessa diventino digeribili,ma soprattutto denunciate. Baudelaire racconta la sua inquietudine, la sua riluttanza e la profonda tristezza che prova nell’osservare l’alone di morte della creatività sotto le stelle parigine: ci narra la vita di vecchi saltimbanchi, la bellezza crudelmente svanita di donne, la volontà quasi maniacale di annegare nei suoi “paradisi artificiali” (altro libro dello stesso autore) la comune visione del mondo moderno, diviso tra moda e necessità di ricerca dell’infinito, come facevano i romantici di fine settecento, suoi predecessori. Il poeta adotta la forza della fantasia e la potenza delle parole per ricercare il mistero, la scintilla vitale che gli permetta di non sentirsi morto dentro: e per farlo, quasi a contraddire questa sua necessità di fiamma interiore e quindi di luce, egli rincorre la notte, una notte profonda, cosparsa di eco di vite al limite, di immagini tristi, sempre in bilico tra la fantasticheria e il sopraggiungere inaspettato della coscienza. È un’esplorazione della modernità ed egli stesso conviene nel dire che non importa come si esplora, se il bene o il male, se la luce o l’oscurità, l’importante è essere sempre “ebbri di vino, poesia o virtù”. Molte frasi mi permettono di riconoscermi in lui, forse per la strana continuità di necessaria fuga dalla modernità (forse perché la mia anima è stranamente ottocentesca): Baudelaire è uno dei pochi poeti capaci di descrivere la meraviglia e la costernazione contemporanee per una cosa bella come può essere una nuvola, il mare… Cito dalla prosa III “Il confiteor dell’artista”: “…vi sono sensazioni deliziose in cui la vaghezza non esclude l’intensità, e non c’è lama più acuminata di quella dell’Infinito. Grande delizia annegare lo sguardo nell’immenso del cielo e del mare! Solitudine, silenzio, purezza incomparabile dell’azzurro!…monotona melodia…” e mentre pensa a sé in relazione alle cose e come queste si manifestino attraverso il suo io egli giunge a dire: “E ora la profondità del cielo mi costerna: la sua limpidezza mi esaspera. L’insensibilità del mare, l’immutabilità dello spettacolo mi rivoltano… Ah! Bisognerà eternamente soffrire? O eternamente fuggire il bello?” per poi arrivare all’inevitabile conclusione in cui alla bellezza che vediamo ci possiamo opporre, ma ne veniamo comunque vinti. Un esempio della sua rivolta alla noia è descritto nella prosa IX “Il cattivo vetraio” in cui dice che ci sono nature umane totalmente inadatte all’azione che improvvisamente si risvegliano e con impensabile rapidità si mettono in moto a causa di “quella sorta di energia che sprizza dalla noia e dal sogno…”. Insomma non posso raccontare tutto il libro… ma posso dire perché sia il mio preferito: immaginatevi come sottofondo una flebile fisarmonica parigina che suona tristi e melanconiche melodie per le vie di Mont Martre. È notte per le strade di Parigi, la luce è sommessa sulle poche facce che si incontrano. La quotidianità assopisce irrimediabilmente gli animi delle persone che si districano nei primi passi effettivi della modernità e del dandismo. Un poeta, ebbro di poesia, vino e virtù incontra personaggi tristi e irriverenti, racconta spaccati di vite, espressioni di volti segnati dalle esperienze della vita; racconta le svolgersi dei nodi delle mura della sua città così bella e al contempo così noiosa… Un poeta che narra di un cane e di un saltimbanco, di poveri e donne rovinate dal passare degli anni. E il suo modo di raccontare è fantasioso, caldo, affabile e al contempo quasi distaccato, analizzatore, clinico. Per quanto venga nauseato da quello che vede, egli resta meravigliato, stupito e rapito dalla bellezza che ogni angolo nasconde… potremmo a grandi linee pensare che sia effettivamente moderno come pensiero (o forse sono io rimasta indietro). Ma è un libro affascinante e inebriante di vino, poesia e in fondo anche di virtù.

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